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Perchè è una grande bellezza

Che Paolo Sorrentino sia ormai uno dei massimi poeti dell’arte visiva italiana, non lo testimonia solo una passione personale, ma lo afferma il suo percorso artistico  consolidato In Italia, in Europa ed Oltreoceano, ricco di premi e di  riconoscimenti e, soprattutto, ricamato attorno  capolavori come L’uomo in più, Le conseguenze dell’amore, This must be the place.

La grande bellezza è un viaggio dilatato, circolare, senza cioè farsi carico di una sinossi lineare o quanto meno ancorata sui meccanismi tipici del plot in stile Deleuziano. E’ un chiaroscuro emozionale impreziosito da tanti sottotesti, che compongono a ricamare la grande bellezza di questo percorso narrativo. Quando infatti non ci si ferma dinnanzi alla semplicità di una storia comune, immediatamente esigibile  a modello,  processo denotativo delle cose, ma si prova a guardare più in profondità, ne gustiamo e ne ricerchiamo la vera essenza, il significato ultimo come una conquista, come una rivelazione, il perchè di tante cose senza fermarsi alle ombre della caverna.

Il viaggio di Jep Gambardella è un guardarsi dentro e fuori e ritrovarsi  “come Nani sulle spalle dei giganti, ma  incapaci però di guardare oltre, troppo ancorati all’effimero, all’assenza di valori, all’assenza di prospettiva, alla paura del futuro e quindi incapaci di ritrovarsi nel tempo ed impossibilitati a guardarci  come  gli alieni di Mattatoio n.5 che vedevano gli umani come enormi millepiedi, assemblando nell’immagine di ogni persona tutte le quelle appartenenti dalla nascita alla morte, dal passato, al presente al futuro.

E’ allora ecco che va in scena la triste consapevolezza di aver perso nel presente il rapporto con il tempo, e  Roma che nelle prime immagini, con la delicatezza delle carrellate sorrentiniane, ci appare eterna, bellissima, elegante, immensa nel suo patrimonio storico culturale, si fa palcoscenico vuoto, dove è impossibile trovare tracce delle vera quotidianità, delle persone comuni, degli affanni della metropoli, ancor più a sottolineare quella incolmabile cesura che divide il presente dal passato, il ruolo dei savi dalla forza del popolo, della comunità,  con gli unici riverberi di vita affidati ai vari loft sui quali si consuma “il vortice della mondanità”,  l’effimero di un’aristocrazia culturale incapace, troppo rivolta su se stessa, ad armarsi al ruolo di guida del presente. 

E allora sembrano incolmabili persino le distanze che separano Jep dall’amore vero, ancorato ad un ricordo o ad una passione non consumata : Jap: “È stato bello non fare l’amore…”Ramona: “È stato bello volersi bene!”, dalla passione di scrivere un romanzo che parli di vita , dall’ inquilino del piano di sopra che sembra irraggiungibile, o almeno fin quando non si finisce per scoprirne la sua vera natura.

Come per Proust protagonista è il tempo, il tempo di un romanzo mai scritto, tempo immortalato nelle fotografie  dell’artista, il tempo del gioco sottratto alla bambina artista,  ma purtroppo in questo caso non si parla di  tempo perduto, nel senso nostalgico del termine, come memoria di ciò che è finito, ma piuttosto di un tempo sprecato. Lo spreco di tempo, lo spreco di vita. 

“Proust scrive che la morte potrebbe coglierci questo pomeriggio. Mette paura Proust. Non domani, non tra un anno ma questo stesso pomeriggio scrive.” E’ una delle poche rivelazioni lucide, non a caso affidate ad un ragazzo che viene etichettato troppo velocemente come pazzo e che finirà per  trovare  nel suicidio l’unico modo di contrastare e rendere visibile l’incomunicabilità del presente. E quindi la morte. La morte e la recita,  assenza di realtà magari solo finzione. “Finisce sempre così. Con la morte. Prima, però, c’è stata la vita, nascosta sotto il bla bla bla bla bla. È tutto sedimentato sotto il chiacchiericcio e il rumore. Il silenzio e il sentimento. L’emozione e la paura. Gli sparuti incostanti sprazzi di bellezza. E poi lo squallore disgraziato e l’uomo miserabile. Tutto sepolto dalla coperta dell’imbarazzo dello stare al mondo. Bla. Bla. Bla. Bla. Altrove, c’è l’altrove. Io non mi occupo dell’altrove. Dunque, che questo romanzo abbia inizio. In fondo, è solo un trucco. Sì, è solo un trucco”

E allora in uno scenario composto da bozzetti poetici del passato, nostalgici chiaroscuri e colorimetrie sintattiche non certo edificanti del presente, dov’è nascosta la grande bellezza?  La si scorge nella delicatezza delle immagini, nello stile raffinato e innovativo delle narrazione, nei movimenti della macchina da presa che disegnano in maniera elegante i  personaggi. Nell’armonia dialogica delle musiche di Lele Marchitelli. Nel finale, con il volto di Servillo, che simboleggia una sorta di miniatura del Temps retrouvé,  il tempo ritrovato, il ritorno “positivo” alla vita. La grande bellezza non è solo una visione estetica ed estatica della vita, come del presente. E’ un invito alla ricerca di un nuovo presente, che diventa tempo nella misura in cui si volge alla  ricerca di un senso, in cui lo spettatore questa volta è interlocutore attivo ed a lui  il regista affida il ruolo di rimettere a posto le tessere del presente,  i particolari banali che come Marcel in “Alla ricerca del tempo perduto” danno inizio ad una nuova narrazione.

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